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Goffredo Mameli
(Genova 1827-Roma 1849)
Poeta, patriota

Eredita dalla madre, amica di Giuseppe Mazzini, la fede repubblicana. Si forma nella passione per i classici latini e italiani, per la letteratura del romanticismo francese e, fondamentale, di G.G. Byron, nonché per i testi biblici (l'Ecclesiaste è il più citato nei suoi appunti). Ammesso alla facoltà di legge, nell'agosto del 1847 conseguì il baccellierato. Alla laurea, invece, non arrivò mai, perché ormai le sue vocazioni si erano definite in due direzioni: la poesia e la politica.A consegnare totalmente Mameli alla militanza politica fu l'evoluzione interna della situazione italiana, improvvisamente sbloccatasi nel 1846 con l'elezione di Pio IX. Quando però ebbe inizio il processo riformistico innescato dai primi atti del papa "liberale", egli non si accontentò del programma indipendentistico liberalmoderato e aderì in pieno all'ideologia mazziniana repubblicana e unitaria, dedicandosi all’impegno diretto. A fare da tramite fu il concittadino N. Bixio, incaricato appunto da Mazzini di rilanciare la cospirazione a Genova facendo leva su forze fresche.Cominciò allora, in coincidenza con il rilievo pubblico acquistato dalla figura di Mameli, la stagione breve ma intensa della sua poesia patriottica: se ne ebbero le prime avvisaglie in due componimenti dell'autunno del 1846: Ad un angelo e la canzone L'alba, dove l'appello alla sollevazione contro lo straniero traeva forza dall'evocazione del ricordo di Roma antica.I canti del biennio 1847-48 furono spesso eseguiti in pubblico e subito dopo circolarono stampati o su fogli volanti o nei giornali di tendenza democratica. Nella grande manifestazione del 10 dicembre 1847, celebrandosi i 101 anni della rivolta di Balilla, lo spirito antiaustriaco toccò il livello più alto proprio sull'onda degli inni composti da Mameli e diventati subito popolari, quasi colonna sonora della stagione che si concluderà con la rivoluzione del '48 e, un anno dopo, con la Repubblica Romana. Prima ancora di essere musicati (e non tutti lo furono) possedevano una loro sonorità in virtù del ritmo rapido dei settenari e del ritornello che, ripreso al termine di ogni strofa, ribadiva insistente il concetto cardine dell'intero brano. Il più famoso di questi inni, Fratelli d'Italia, fu declamato per la prima volta in pubblico il 9 novembre 1847 con un incipit diverso ("Evviva l'Italia, / L'Italia s'è desta") e nella prima edizione su foglio volante (Modena 1848) era intitolato Canto degli Italiani. Messo in musica dal maestro M. Novaro che introdusse l'incipit definitivo, accompagnò per un biennio le gesta dei volontari istillando nel sentire comune, insieme con l'odio per l'Austria, l'orgoglio di un passato che si fregiava delle glorie romane e di quelle dell'Italia dei comuni. Non minore fu il gradimento che toccò a un inno di poco posteriore, Dio e il Popolo,  con cui l'autore cercava di infondere nel popolo - in ossequio all'empito mazziniano- la coscienza della propria forza; e anche qui divenne notissimo il ritornello "Poi se il Popolo si desta / Dio combatte alla sua testa, / La sua folgore gli dà". Alla guerra del 1848 cercò di contribuire portando in Lombardia, insieme con Bixio, una colonna di circa 500 volontari genovesi. Gli interventi a stampa che dall'autunno del 1848 pubblicò con regolarità nel Diario del popolo, di cui assunse la direzione, denunciavano il fallimento totale della guerra regia ed esaltavano tutti quei personaggi (G. Garibaldi, D. D'Apice) e quei luoghi (Venezia, la Sicilia, la Toscana) che testimoniavano la capacità di iniziativa dal basso della nazione. Lasciata Genova il 3 novembre, si mise sulle tracce di Garibaldi che raggiunse in Toscana e seguì a Bologna aggregandosi alla sua Legione romana. Era a Ravenna quando apprese che a Roma P. Rossi era stato ucciso. Pochi giorni dopo, la notizia della fuga di Pio IX a Gaeta lo spinse a portarsi a Roma dove, secondo le direttive di Mazzini, si affrettò a fondare un comitato dell'Associazione nazionale per promuovere la convocazione della Costituente. La proclamazione della Repubblica Romana (9 febbraio 1849) parvero un fatto decisivo che l'afflusso dei migliori elementi della democrazia (con lui erano, tra gli altri, F. De Boni, P. Maestri, F. Dall'Ongaro, E. Cernuschi) privava di ogni contenuto localistico; perciò quello stesso 9 febbraio Mameli si affrettò a chiamarvi Mazzini con un dispaccio famoso ("Roma! Repubblica! Venite!") che ne rivelava l'entusiasmo e la certezza che con quel capo politico l'Unità non fosse lontana.All'inizio dell'assedio francese fu nominato da Garibaldi aiutante di campo e in tale veste prese parte alla successiva campagna per ricacciare le truppe napoletane dal territorio della Repubblica segnalandosi per valore sia a Palestrina sia a Velletri. Richiamato con Garibaldi a Roma, il 3 giugno, alla ripresa dell'assedio, durante una carica lanciata per riprendere villa Corsini rimase ferito, probabilmente dal fuoco amico, alla gamba sinistra riportando la perforazione della tibia e del perone. Le cure somministrategli non poterono impedire l'insorgere di una cancrena per arrestare la quale i medici decisero, il 19 giugno, di amputare l'arto. Ma ormai l'infezione aveva invaso il suo organismo; dopo due settimane di sofferenze il M. morì il 6 luglio 1849, quando già da tre giorni i Francesi erano entrati in Roma. Chi lo assistette fino alla fine lo sentì improvvisare "continuamente versi sconnessi sulla Italiana indipendenza". I resti di Mameli furono chiusi in una cassa che fu depositata nei sotterranei della romana chiesa delle Stimmate: esumati, come detto, nel 1872, furono trasferiti al Verano, da dove furono prelevati nel 1941 per la definitiva sepoltura nel sacrario del Gianicolo.Le circostanze della morte, la giovane età, la brusca interruzione di una promettente attività letteraria, tutto contribuì all'edificazione del mito Mameli. Più di tutti, fu Mazzini che volle fare di lui il simbolo del poeta soldato, sintesi di pensiero e azione ed esempio di una dedizione alla patria capace di spingere fino al sacrificio di sé. Quanto all'inno cui resta legato il suo nome, nel 1946, dopo un periodo di relativo oblio, un decreto approvato qualche mese dopo il referendum del 2 giugno ne sancì provvisoriamente l'adozione come inno ufficiale dello Stato repubblicano, ma non poté impedire che per anni andasse avanti la discussione sull'opportunità di attribuire tale qualifica a un testo per un verso ritenuto, con qualche sufficienza, troppo retorico e provinciale, per l'altro considerato ormai superato se non incomprensibile in alcune espressioni di stampo ottocentesco. Non mancarono proposte di sostituzione, tutte accantonate per conservare un inno che ha rivelato una insospettabile capacità di tenuta e il 17 novembre 2005 è stato formalmente proclamato inno nazionale.