Fedele D’Amico, padre del critico e teorico teatrale Silvio D’Amico (Roma 1887 – 1955) qui sepolto, si trasferì a Roma su invito dello zio paterno Domenico D’Amico (1819-1901), noto stuccatore e decoratore, nonché committente della Tomba D’Amico eseguita dal collega Luca Carimini. Grazie ai lasciti di Domenico D’Amico, Silvio ricevette una buona istruzione: frequentò l'Istituto Massimo dei gesuiti, conseguì la laurea in giurisprudenza e negli anni universitari coltivò i suoi interessi artistici e teatrali frequentando la facoltà di lettere e filosofia.Nel 1911 vinse il concorso del Ministero della Pubblica Istruzione per la Direzione generale antichità e belle arti e dal 1915 intraprese l’attività di giornalista, collaborando come critico drammatico al quotidiano L'Idea nazionale e in seguito a La Tribuna dal 1925 al 1940. In quegli anni fondò assieme a Nicola de Pirro la rivista Scenario. I suoi due primi libri (teatro dei fantocci, 1920 e Maschere, 1921) lo favorirono per la nomina di professore di storia del teatro alla scuola di recitazione presso l'Accademia di S. Cecilia di Roma nel 1923.
Nei suoi scritti D’Amico indagò le ragioni della decadenza del teatro. Sostenne l’importanza di un'adeguata preparazione culturale e tecnica, di attori e registi, da compiersi in una scuola e la creazione dei teatri stabili; strutture che necessitavano dell'aiuto dello Stato.In seguito portò a compimento una delle sue opere più importanti i quattro volumi della Storia del teatro drammatico di tutto il mondo (1939-40). Promosse nel 1935 la nascita dell’Accademia nazionale d'arte drammatica, di cui fu il primo presidente e professore di storia del teatro.Dal 1937 al 1943 diresse la Rivista italiana del Dramma (poi Rivista italiana del teatro), edita dalla Società degli Autori. Scrisse su Il Giornale d'Italia dal 1941 al 1943. Interruppe le collaborazioni in seguito all’occupazione tedesca della capitale. Dopo la Liberazione riprese a collaborare con i quotidiani: dal 1945 al 1955 fu il critico de Il Tempo. Diresse e curò un’imponente Enciclopedia dello Spettacolo in 11 volumi (1954-75).
Luca Carimini (Roma 1830 – 1890) lavora come scalpellino dal 1846 presso la bottega di Pietro Romaggi, considerato il migliore marmista di Roma del periodo. Qui eseguì stele e cappelle funerarie; verso il 1850 lo zio materno, Baldassarre Bellucci, capomastro imprenditore, gli aprì una bottega di scalpellino facendolo collaborare ai propri lavori; questa attività gli diede modo di approfondire la conoscenza dei materiali attraverso il loro uso artigianale.Contemporaneamente frequentava la scuola di ornato all'Accademia di S. Luca. In pochi anni la bottega da lui diretta arrivò ad avere circa sessanta allievi apprendisti; i lavori eseguiti sono principalmente monumenti e cappelle funerarie, monumenti all'interno di chiese e altari. Nel 1868 l'Archiginnasio della Sapienza lo riconobbe architetto in seguito alla segnalazione della commissione di esami dell'accademia, nella quale erano membri, fra gli altri, L. Poletti, V. Vespignani e L. Sarti.
Con l'inizio dell'attività di architetto e i lavori su grande scala, come la decorazione generale dell'interno e la confessione della chiesa di S. Salvatore in Onda a Roma (1867-78), Carimini consolidò la sua fama di accurato costruttore, lavorando non solo in Italia, ma anche all'estero, soprattutto in Sudamerica. Già i primi lavori da architetto, come il restauro della chiesa di S. Maria di Loreto al Foro Traiano e la nuova sacrestia, in collaborazione con Giuseppe Sacconi (1871), mostrano chiaramente la sua abilità ed esperienza su cui sviluppò la ricerca architettonica.La professione di scalpellino rappresenta la matrice di tutta la sua opera architettonica. Il repertorio tipologico quattrocentesco, indagato soprattutto nell'architettura minore e nel dettaglio, che gli era servito per i monumenti e le cappelle sepolcrali, gli fornì specifici strumenti formali da usare nella struttura generale della composizione. Per la sua conoscenza dei materiali Carimini viene designato, nel 1886 perito di fiducia, da parte sia del municipio di Roma sia della ditta costruttrice, per la vertenza sulla qualità del travertino impiegato nella costruzione del ponte Garibaldi.
La correttezza professionale è riconoscibile non solo nella esecuzione degli edifici, ma anche, più in generale, nel modo di affrontare i problemi architettonici, fino ad arrivare alla rinuncia del proprio linguaggio figurativo di fronte alle necessità di ambientamento nella Roma cinquecentesca, come nel Collegio francese in piazza di S. Chiara e nella facciata della vicina chiesa di S. Chiara (realizzata nel 1885-1890) in cui all'uso del mattone è sostituito quello dell'intonaco.La sua vicenda si chiude con il progetto del palazzo di Giustizia a Roma (1882), incarico commissionatogli direttamente ma poi revocato; la costruzione ideata, un pesante edificio quadrato con una alta torre al centro, è molto complessa e non raggiunge certo la compiutezza di altre opere, mostrando la difficoltà di applicare a grandi temi un metodo che si fonda ancora su di un rigore artigianale e che trova una naturale espressione in edifici piccoli o di medie dimensioni.Numerose le sue opere al Verano, tra le quali i monumenti D'Amico, De Belardini, Venier Marignoli, Rezzi, Santini e le cappelle Chiesi, Avenoli, Decetto, Cavaceppi, Cassetta, Vannutelli, Lais, Carimini, D'Arcangeli, Blumensthil. Altrettanto numerosi i suoi interventi architettonici a Roma, tra cui la decorazione generale dell'interno della chiesa di S. Maria in Aquiro e la ricostruzione dell'interno e della parte superiore della facciata della chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli.